Se sei un fundraiser potrebbe esserti già capitato di sentire l’espressione anglofona “Donor Retention”. Bene, perché è un concetto importantissimo!
Il nome completo è Donor Retention Rate ed è la percentuale di donatori che continuano a donare a un’organizzazione dato un certo lasso di tempo. Se per esempio una Non Profit nel 2015 ha avuto 100 donatori, che sono diventati 75 nel 2016, ha avuto una donor retention del 75%. Il contrario della Donor Retention, si chiama Donor Attrition ed è quanti donatori abbandonano dopo una donazione. Nel caso precedente sarebbe del 25%. Uno degli obiettivi del fundraiser è massimizzare la retention e minimizzare l’attrition!
Usate un secchio, non uno scolapasta
Verrebbe da pensare che l’esempio con il rateo 75-25 sia pessimista, ma purtroppo la donor retention media del 2015 è al 46%. Ogni anno più della metà delle persone abbandona la loro Non Profit, per i più svariati motivi. Se una Non Profit ha una retention del genere e parte nel 2010 con 1000 donatori, nel 2011 ne restano 460, poi 212, poi 97, poi 44, poi 21 e nel 2017 il numero si riduce a 10 fedelissimi! In 7 anni il 99% se n’è andato. Si capisce quanto sia importante mantenere la retention su valori il più alti possibile.
A riprova di ciò, in una ricerca fatta nel 2016, la Association of Fundraising Professional ha evidenziato che le donazioni complessive erano aumentate del 5%. Bella notizia. Ma il dato che impressiona è che più della metà delle donazioni arrivava dal nuovo, cioè da persone che non avevano donato prima. Com’è possibile che arrivino il 50% di nuovi donatori e le donazioni aumentino solo del 5%? Il problema è la retention di quelli già presenti. La fuga dei donatori compensa l’ingresso di nuove risorse. È come cercare di riempire uno scolapasta! Potete anche usare un fiume intero per provare a riempirlo, ma non è una questione di aumentare il flusso di acqua, occorre di tappare i buchi.
La questione relazionale
Come mai c’è questo continuo flusso di donatori in uscite? Dando uno sguardo ai motivi principali che portano alla cessazione delle donazioni il quadro è interessante. Ci sono tre cause importanti che vanno considerate a parte, perché non riguardano i rapporti con i donatori:
- l’incapacità finanziaria del donatore
- il “passaggio alla concorrenza”
- la morte del donatore
Sono questioni su cui è più difficile intervenire, anche se non è impossibile: persino la questione del decesso del donatore. È vero che tutti dobbiamo morire, ma si può sempre fare testamento!
Il dato veramente rilevante riguarda le altre voci in elenco per cui un donatore lascia:
- scarsa comunicazione
- non è mai stato ringraziato
- non ricorda di aver donato
- non sa come sono stati usati i suoi doni
- ritiene che non ci sia più bisogno di lui
Tutte insieme fanno il 53% dei motivi e sono tutti problemi relazionali. Cioè problemi di Donor Care.
Il Donor Care è esattamente la stessa cosa del Customer Care: quella cosa a cui moltissime imprese prestano estrema attenzione. Se lo fanno loro perché non dovrebbero farlo anche le imprese del terzo settore, per le quali il rapporto di fiducia e la comprensione del donatore è molto più importante? Eppure non ci vuole niente a evitare situazioni imbarazzanti: tutti i problemi elencati sono cose che vengono risolte alzando la cornetta del telefono o inviando una mail.
Serve più di un database
Roger Bergonzoli ha sottolineato nel suo discorso di ringraziamento per il premio fundraiser dell’anno 2017, come il database sia l’unico strumento a cui non rinuncerebbe veramente mai. Io la penso allo stesso identico modo: è fondamentale avere un database dei donatori curato ed esaustivo. Vorrei aggiungere però che oltre al deposito dei dati, servono dei workflow. Cioè dei processi di lavoro che non lascino mai il donatore da solo, ma facciano percepire la gratitudine e l’interesse della Non Profit. Vi faccio un esempio:
- Trovandosi davanti una donazione, un fundraiser parziale nel suo lavoro cosa fa? Si limita a registrarla nel suo database, in modo da tenere a mente il dato e farne testimonianza del successo della sua campagna. Il donatore si trova un po’ smarrito a questo punto, perché tutto il rapporto si è esaurito nel momento in cui la donazione è stata fatta.
- Un buon fundraiser approfitta della donazione per farne l’inizio di un rapporto. Costruisce una serie di piccoli passaggi e semplici operazioni di contatto che mantengono vivo il rapporto, danno al donatore l’attenzione che merita e non gli lasciano scuse per smettere di donare.
I passaggi, tutti insieme vanno a costituire un workflow come quello che vedete in questo diagramma:
Ognuna delle caselle blu del diagramma rappresenta un’azione che il fundraiser compie nei confronti del donatore. Sono cose piccole, dilazionate nel tempo ma che dimostrano la loro efficacia proprio contro quel 53% di motivi di abbandono evidenziati nelle statistiche precedenti. Sono le “toppe nel secchio del fundraising”, che smettono di far colare fuori risorse preziose. Così si evita quel brutto “effetto scolapasta” che mina la crescita.
Molte volte si tende a concentrare il lavoro sull’acquisizione di nuovi donatori, ma la vera miniera d’oro sono i donatori già acquisiti. Convincere un nuovo donatore è un’attività estremamente faticosa, confrontandola con il workflow mostrato nel diagramma. Dare un po’ di attenzione ai donatori già presenti nel database è molto molto più semplice, perché sono stati già conquistati una volta e si riesce a parlare loro di cose che conoscono e di cui si fidano. Saranno colpiti dalla tua fiducia e dalla tua gratitudine e saranno più proni a donare. Approfittane e sia tu che i tuoi donatori sarete più felici!
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