Carola, il tuo articolo pubblicato su Il Giornale delle Fondazioni parla del tema sempre scottante e delicato dei finanziamenti da parte delle fondazioni filantropiche.

Dalla tua posizione di segretario generale di Assifero e di membro dell’advisory board di Ariadne (European Funders for Social Change and Human rights) e dell’ECFI (European Community Foundations Initiative), sicuramente sei una delle più autorevoli voci italiane in tema.

Riassumendo, sostieni che le fondazioni filantropiche private dovrebbero prendere l’iniziativa e considerare le organizzazioni non profit partner con cui contribuire al bene comune, e non meri beneficiari. In concreto le fondazioni private dovrebbero differenziarsi dai donatori pubblici e iniziare a finanziare missioni, obiettivi strategici e organizzazioni e non solo progetti. Il luogo comune è infatti che un finanziamento vada in toto alla realizzazione di un progetto, creando un circolo di dipendenza delle organizzazioni non profit da progetti e bandi. Riprendendo il tuo articolo:

“Come possiamo pretendere che gli enti del terzo settore raggiungano i propri obiettivi strategici e la propria missione quando la maggior parte di essi tribola per la propria sopravvivenza come organizzazione senza riuscire a garantire salari decenti, tecnologie e struttura adeguata?”

Terzo Settore

Prospettive di innovazione e cambiamento nel Terzo Settore

Prestazione tecnologica e data quality sono elementi che in un futuro molto prossimo saranno la base di ogni iniziativa di successo. Nel mondo delle imprese questa idea è stata chiarita e – più o meno – tutti stanno muovendosi. Eppure, nel terzo settore, probabilmente proprio per le dinamiche da te descritte, si vive questa rivoluzione imminente con un’inerzia sconsiderata. Sembra che le fondazioni, pur derivando molte volte da imprese o famiglie imprenditoriali, non sentano la pressione dell’adeguamento per le organizzazioni che finanziano.

Perché esiste questa dicotomia di visione fra imprese e filantropia?

Il mantra che il terzo settore in sé debba costare poco e che tutti i finanziamenti debbano essere destinati ai progetti con la correlata formula magica della percentuale dei costi di struttura/costi generali come unico indicatore di efficienza degli enti del terzo settore, da decenni li strangola, riducendoli in “progettifici”, con organizzazioni, strutture e staff inadeguati, da cui i cervelli migliori, pur se estremamente motivati, vanno via.

In qualunque settore, le organizzazioni che investono sulle persone, sulle capacità, sui sistemi gestionali e tecnologici, sulla sostenibilità e lo sviluppo finanziario hanno più probabilità di successo.

Ma nel terzo settore l’approccio ideologico cambia le carte in tavola e anche imprenditori che nella propria attività imprenditoriale conoscono benissimo il valore dell’investimento sull’organizzazione, nella loro attività filantropica anche di filantropia istituzionale – fondazioni di famiglia, per esempio – vogliono finanziare solo progetti. Lo stesso vale per le imprese nelle attività della propria fondazione corporate.

La percentuale dei costi di struttura/costi generali sul finanziamento complessivo del progetto oscilla tra il 7% e il 15% arrivando solo eccezionalmente a qualche punto percentuale in più, ed è sempre comunque irrisoria rispetto a una media del 35% che caratterizza i settori profit.

Sta prendendo sempre più piede un nuovo modo di raccogliere fondi, centrato sempre più sul digitale. Sicuramente è efficace e potente, ma cambia decisamente il modo di rapportarsi fra fundraiser e donatori. Quindi è il momento di innovare in un settore che è vitale per le organizzazioni, eppure relativamente distante dai progetti. Se una non profit richiedesse un sostegno per innovare il suo fundraising, dimostrando che il ritorno successivo all’investimento ci sarebbe (un esempio di chi fa così è charity:water), dovrebbe sentirsi dire di sì.

Ora, in Italia, che succede?

Negli ultimi anni le fondazioni più importanti del mondo hanno scelto di investire in supporto generale operativo per i loro partners (in italiano si dice ancora beneficiari) per buona parte dei loro budget: Bill and Melinda Gates, Ford Foundation, OSF- Open Society Foundation, OAK Foundation.

In Italia le fondazioni filantropiche che hanno iniziato a farlo si contano sulle dita di una mano. Abbiamo bisogno di fondazioni filantropiche italiane che abbiano, allo stesso tempo, l’umiltà e il coraggio per fare questo passo: l’umiltà di riconoscere nelle organizzazioni dei veri partner strategici e non dei meri beneficiari- ricettori di finanziamenti e il coraggio di rivoltare completamente le dinamiche di potere erogatore- beneficiario dell’attuale sistema incentrato sui bandi e il punto di partenza dal controllo degli input agli outcome, per favorire l’empowerment e la partecipazione attiva, libera e significativa di partner- enti del terzo settore al cambiamento sociale.

Una parola che descrive bene il comportamento delle associazioni italiane in termini di finanziamenti e di raccolta fondi è sussistenza. Molte non profit si aspettano di raccogliere quasi senza fare richieste (e spesso vergognandosi di farle) giustificandosi con il loro impatto sociale. A volte una causa è anche l’essere “viziate” dal carisma di un fondatore importante o da un pool di major donor che per decine di anni fanno la maggior parte del lavoro. Capita anche troppo spesso che i doni che entrano non ricevano la giusta riconoscenza e la giusta rendicontazione: un modo di fare grossolano che viene schermato sempre dietro al “fatto di fare beneficenza”.

Mi verrebbe da dire che non si possono accusare solo le fondazioni del loro comportamento. C’è concorso di colpa?

In Italia la mitizzazione del costo zero o quasi zero degli enti del terzo settore affonda le radici in diversi terreni, tra cui: la cultura del volontariato cattolico, l’inconscio di un paese profondamente basato su un sistema maschilista in cui per centinaia d’anni i servizi sociali sono stati svolti gratuitamente dalla chiesa e, in grande maggioranza, dalle donne, religiose e laiche, le dichiarazioni di facciata nella lotta alla sottocultura della furberia, del rischio che gli pseudofurbi riescano a finanziare gli amici e gli amici degli amici e, in generale, la mancanza di fiducia sociale e la paura di assumersi responsabilità di scelta.

Il terzo settore è un comparto notoriamente poco innovativo. Le innovazioni in campo arrivano dall’estero o da altri settori. La sussistenza è il massimo nemico dell’innovazione.

Come si può superarla e far diventare il terzo settore un nuovo punto dell’innovazione?

Il terzo settore in Italia, per affrontare in modo coraggioso, innovativo ed efficace le grandi sfide sociali ha disperato bisogno di supporto generale operativo (overhead/core support) e cioè di finanziamenti per gli obiettivi strategici della organizzazione – per la missione come direbbe Mariana Mazzucato – anziché solo su progetti specifici. Il terzo settore italiano ha un bisogno vitale di supporto generale operativo, di working capital, da usare in modo flessibile, non vincolato a progetti, per affrontare le opportunità che emergono e rafforzare le proprie organizzazioni a livello tecnologico, comunicativo, gestionale e finanziario.

Quando si parla di innovazione si parla inevitabilmente di investimenti. Importare know how, tecnologie e metodi da altri settori comporta rivolgersi a professionisti o a imprese e il lavoro di queste persone ha un valore incontestabile. Eppure, i rapporti con i partner d’impresa spesso non proseguono perché c’è incapacità di vedere un ritorno di investimento, fermando la propria visione ai costi.

Cosa possono fare le non profit, i partner business e le fondazioni per superare questo problema?

I finanziamenti di cui le organizzazioni del terzo settore hanno bisogno vitale sono di lungo periodo, flessibili, non solo donazioni monetarie a fondo perduto, ma un portfolio di donazioni monetarie e non, come relazioni, connessioni e altri tipi di supporto (per esempio uso di spazi, prestiti, garanzie per l’ottenimento di prestiti). Da parte dei finanziatori è necessaria una vera e propria trasformazione del modo di finanziare, di investire, di erogare che necessita di nuove policy e modalità di finanziamento, diverse dai bandi.

Il primo passo che i finanziatori dovrebbero fare è spostare la loro attenzione dagli input – e dal controllo su quegli input – ai processi e ai risultati, o meglio all’impatto: outcomes e non solo outputs e selezionare gli enti del terzo settore su cui investire, non certo aprioristicamente (amici degli amici), ma attraverso policy di scouting, dialogo costante, accreditamento[6] e costruzione di relazioni di fiducia basate sulla condivisione della missione e meccanismi di comparazione degli obiettivi strategici.

Costruire partnership strategiche su missioni, che scardinino la relazione erogatore- beneficiario di progetto, verso un modello in cui il partner finanziatore e il partner implementatore stanno in una relazione di partnership strategica e non di dipendenza top-down.

Per queste finalità è sicuramente uno strumento interessante da valutare la theory of change, a patto che rimanga uno degli strumenti nel toolbox e non faccia la fine del quadro logico divenendo un nuovo feticcio totalizzante da utilizzare omnicomprensivamente.

Potrebbe essere che parte dell’inerzia innovativa nasca in parte da una certa visione del volontariato? Provo a giustificare la visione: per mia esperienza un volontario presenta due aspetti in contrapposizione fra loro ma altrettanto pericolosi. Da un lato garantisce che il lavoro possa essere svolto gratuitamente, il che porta a tentare di utilizzarlo su più aspetti possibili, anche dove sarebbe meglio sfruttare un professionista più competente nel settore. Dall’altro, per la natura del suo gesto, che è una forma di donazione, non viene ripreso quando sbaglia, né vengono fatti investimenti per formarlo, che sarebbero una spesa interna di quelle tanto deprecate dalle fondazioni. Insomma, si crea un ostacolo che descriverei con una citazione: Se temi il costo di una persona competente, non hai capito quanto ti costa un incompetente.

Senz’altro sì, da una visione del volontariato come un’opportunità da usare il più possibile, da un lato nell’ottica del risparmio di costi, dall’altro della riconoscenza verso chi dedica il proprio tempo all’organizzazione. In questo modo, tuttavia, non c’è investimento nella formazione di persone competenti e ciò sul medio-lungo periodo si può tradurre in un costo.

Anche la legislazione sta imponendo cambiamenti massicci. Ci sono più riforme che, da qui al 2019, influenzeranno in modo importante il terzo settore (soprattutto la ormai prossima riforma del GDPR e quella generale del terzo settore).

Credi che queste riforme possano forzare al cambiamento il settore? Che cosa succederà a chi reagisce troppo lentamente alle riforme?

Per affrontare questioni come la diseguaglianza o il razzismo o l’impoverimento culturale non bastano singoli progetti a sé stanti, è necessario un cambio di paradigma: bisogna accuratamente selezionare le organizzazioni del terzo settore ed investire sulle loro missioni, sui loro obiettivi strategici, espandendo e catalizzando le loro competenze e capacità. Le attuali riforme incideranno necessariamente su tutto il terzo settore, che dovrà coglierle non come un peso ma come un’opportunità per rinnovarsi. Chi non sarà in grado di farlo resterà legato a dinamiche obsolete che non gli permetteranno di impattare concretamente sulla società nel lungo periodo.

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